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IL VALICO DEL MONCENISIO
di LUIGI FIGUIER
Il valico del Moncenisio, che a 2083 metri di quota mette in comunicazione la val di Susa con la valle dell’Arc, ha una storia lunga e ricca di episodi. Gli inizi, però, sono piuttosto oscuri. I Romani, ad esempio, non lo praticavano quasi, preferendo raggiungere la Gallia Transalpina attraverso il colle del Monginevro. Il viaggio era faticoso e irto di pericoli, tanto che alcuni facevano testamento prima di affrontare il “Monte”. D’inverno, valanghe e bufere lo rendevano ancora più difficile, come testimonia l’uso, da parte dei monaci dell’Ospizio, di raccogliere i corpi dei viandanti morti lungo il cammino nella Chapelle des Transis, per trasportarli poi a valle dopo il disgelo.
Era nel marzo 1865. Aveva terminato il mio primo viaggio in Italia, e dopo avervi passato due mesi ad occupare la mente e gli occhi nelle ricchezze artistiche di quel meraviglioso paese, ed a raccogliere preziosi materiali nell'ordine scientifico, mi preparava a ritornare in Francia. Tornare, è presto detto; ma come? Le Alpi erano tuttora ingombre di neve, e le nevi dei monti non si attraversano mai senza pericolo. Nondimeno bisognava decidersi ad affrontare il passaggio del Moncenisio durante la cattiva stagione. Le difficoltà di quel tragitto oggi formano parte del dominio della storia, perciò solo a titolo di memoria narreremo i patimenti che si subivano in quel faticoso viaggio, prima della creazione della galleria subalpina.
Una sera, con quel freddo pungente che è proprio dei paesi circondati da monti, lasciai la città di Torino. La ferrovia mi condusse in due ore a Susa. Chiave dell'Italia, fra il Moncenisio e il monte di Ginevra, alle cui falde essa si trova, da qualsiasi strada di quei due rocciosi giganti vi si giunga, la bella cittaduzza di Susa è delle più pittoresche. Rannicchiata a piè delle Alpi, presso l'antica frontiera francese, essa ha un aspetto un po' triste, ma non bisogna ricercare nelle località dominate dalle nevi eterne, la gajezza delle grandi città.
Sceso dalla ferrovia a Susa, dovetti aspettare che i bagagli fossero caricati sulla diligenza che doveva farci attraversare la montagna. Credevo la diligenza sparita come il mastodonte dei terreni quaternari, come i calzoni con staffe del tempo di Luigi Filippo. Quale errore! Quella diligenza che io credeva scomparsa, mi stava dinanzi, un po' sconquassata e crollante, e per dir tutto, in cattivissimo stato, ma sempre sulle sue quattro ruote e in equilibrio, malgrado il suo immenso ed alto carico. Riconobbi l'aristocratico coupé, l'interno destinato all'aurea mediocrità e la rotonda, soggiorno consueto delle balie e degli operai. Rividi con gioia quell'imperiale, ricovero degli artisti, dei turisti, dei curiosi e di quelli che cercano il buon mercato; quel postiglione con la sua solita frusta e la sua solita pipa; e quel caro conduttore, col suo brio, la sua franchezza e la sua allegria; tutte cose che credevo scomparse.
Malgrado il mio biglietto di prima classe della ferrovia che mi dava diritto ad un posto scelto, mi fecero montare nell'interno della diligenza, insieme coi viaggiatori provenienti della seconda classe. L'interno della carrozza era occupato da un mercante di bestiami, da un operajo cappellajo di Torino e da due sarte di Susa, ottime persone di certo, ma che, non avendo alcuna abitudine ai viaggi, gridavano, si spaventavano, e minacciavano di cadere in deliquio alla menoma apparenza di pericolo. Frattanto, partiamo. La neve è si alta che le ruote vi affondano sino al mozzo. La strada è ampia e bella, ma non ha alcun parapetto e sale e scende continuamente, e gira sempre come un serpente che ripieghi la sua spira.
Nonostante i pericoli manifesti di quella corsa girante sull'orlo di precipizi, non si poteva schermirsi dall'ammirare quelle rupi ricoperte di un candido manto, quei neri abeti, quei larici, coi loro rami sfrondati e da ciascuno dei quali pendeva uno stalattite di ghiaccio. Era un meraviglioso spettacolo quello delle nubi che dapprima sembrava ci avvolgessero in un funebre lenzuolo, ma che poco dopo, squarciate dal vento, erano attraversate dai raggi della luna. Si è in mezzo ad una visione. Par di camminare sulle nuvole. Dove finisce la terra? Dove incomincia il cielo? non si sa. E se la bufera si scatena fra le gole della montagna, se il vento, sollevando la neve che copre il suolo, la proietta a densi vortici, si comprende allora i patimenti e le pene di quegli arditi marinari e di quei coraggiosi scienziati, che sfidano i ghiacci e le procelle dei mari polari, per rapire alla natura qualcuno de' suoi segreti. Tutti non possono andare al polo, per godere degli ammirabili effetti di neve delle regioni iperboree; tuttavia possono formarsene un'idea bastantemente esatta traversando le Alpi durante l'inverno.
È calata la notte, e, per i nostri compagni di viaggio, la vista dei pericoli è aggravata dal terrore che inspirano le tenebre. Più non si può farsi un'idea degli oggetti che ne circondano, e le masse di nevi accumulate sul suolo, riflettendo i tremuli raggi di alcune incerte stelle, sembrano fantasmi ammantati in grandi lenzuoli. Le mie due vicine, le sarte di Susa, mi hanno l'aria di condannate a morte che muovano al supplizio. Cupe e rassegnate, guardano con terrore la neve accumulata in bianche piramidi, i precipizi spalancati sull'orlo della strada, e le povere capanne di ricovero relegate in quell'immenso deserto. Spesso, una repentina folata mugge per l'aria, scrolla la neve, la trasporta, la sferza, e in un supremo vortice, la sparpaglia sulla neve nuova. Talvolta, un rumore sordo e misterioso risuona in lontananza; mentre si vede un'enorme massa di neve che ingrossa continuamente, inoltrare tumultuosa e terribile. Quel mostro, che porta lo spavento ovunque passa, e che spezza, atterra, distrugge tutto quello che tocca, è la valanga.
In tal modo, i pericoli i più svariati ci minacciano, e non isfuggiamo dall'uno che per cadere in un altro. Alcuni lumicini rossastri brillano fiocamente in mezzo al bujo. Sono le capanne disposte a varie distanze, per servire di ricovero ai viaggiatori, in caso di valanga o di un eccessivo accumularsi di nevi. L'aspetto di quei ricoveri, invece di calmare i terrori del viaggiatore, li raddoppia. Infatti, ogni lume, ogni casetta, è un segnale che lo avverte di un nuovo pericolo.
Verso la mezzanotte, la nostra diligenza non può più muoversi; è presa, come in una morsa, nella neve indurita. È l'ora di far uso delle slitte. La parola slitta desta un'idea delle più esilaranti; la mente ricorre ai pittoreschi veicoli dei giorni di festa e di divertimento. Ma quale è la nostra delusione allo scoprire, invece della sognata slitta, una dozzina di vetture vecchie senza ruote, la cui cassa riposa sopra zoccoli in forma d'arco. Sono le slitte delle Alpi.
Nelle montagne della Svizzera, si è costretti ancora al trasporto dei viaggiatori e dei dispacci mediante diligenze; ma quando una di esse lascia la strada per passare sulla neve, s'introduce sotto la vettura una slitta, si tolgono le ruote e la diligenza continua per la sua strada. Varcato che sia il passaggio delle nevi, ci si rimettono le ruote, si ricarica la slitta sulla vettura e si torna alle condizioni normali.
Coi piedi fra la neve, ciascuno cerca il veicolo che gli è destinato. Ci avevano assicurato che quelle così dette slitte erano riscaldate, ma non ci troviamo il benchè minimo scaldino o acqua calda, e nemmeno della paglia, per liberarci dalla neve che, durante il nostro trasbordo, ci si è attaccata alle scarpe. L'idea del pericolo, che scema e svanisce alla luce e al caldo, cresce e si esagera col freddo e nella notte. Quando il corpo è intirizzito, l'animo è paralizzato, e la volontà non potendo più reagire, sembra che si spenga pur essa.
Saliti in slitta -
Il conduttore ed il postiglione, sentendosi gelare sui loro sedili, discendono, accendono la pipa, e camminano agitando le braccia per riscaldarsi. D'allora in poi su quella strada che rasenta abissi e piena di pericoli, eccoti i cavalli affatto liberi, in balia del solo loro istinto. Tutte le volte che essi si avvicinano all'orlo della via, i nostri viaggiatori mandano grida di spavento, ed aprono le portiere, pronti a gettarsi sulla strada. Noi avevamo un bel fare a supplicarli di starsene tranquilli, poichè, in simili circostanze, non v'ha cosa più pericolosa dello spaventare i cavalli; i lamenti e i clamori ricominciano ad ogni nuova deviazione della slitta.
E ciò avveniva di spesso, poichè continuamente incontravamo numerosi convogli di trasporto, smisuratamente carichi, ai quali era mestieri lasciare lo spazio necessario. Di più la fatalità vuole che noi ci troviamo proprio dalla parte dei precipizi. Siccome non vi sono parapetti, la neve sdrucciolevole, i postiglioni mezzo ubbriachi e i cavalli restii, poteva darsi benissimo che da un momento all'altro noi rotolassimo in un abisso, la cui sola vista mette le vertigini. Finalmente dopo volte e rivolte, a furia di scosse e di spaventi, intirizziti e pesti, attorniati da viaggiatori inesperti ed ingrugniti, sul far del giorno arriviamo a Lans-
Entriamo in un albergo, ove una stufa ben accesa, rossa e crepitante, ci avvolge in una voluttà indescrivibile. Una gran tavola, sulla quale sono schierate delle tazze fumanti ripiene di caffè e latte, e delle graziose fantesche, con cuffie ad ali di molino, occupate a preparare una quantità di fette di pane col burro, completano il bellissimo quadro. Qui abbandoniamo le slitte e prendiamo posto in ottime diligenze. Tuttavia i pericoli della strada non sono ancora scomparsi, poichè noi siamo sempre nel cuore delle Alpi. Ma abbiamo il sole per illuminarle, e il paesaggio è così meravigliosamente bello che la nostra anima non risente più che un senso vivissimo d'ammirazione.